mercoledì 10 febbraio 2016

Fury - David Ayer





Aprile 1945, seconda Guerra Mondiale.
La battaglia è alle sue ultime battute e si svolge all’interno della Germania nazista, ormai vicina alla sconfitta ma più determinata che mai grazie alla forza della disperazione.

La guerra la stanno vincendo gli americani, ma quando si è nel pieno degli scontri non tutto è così chiaro e certo. La vicenda segue quindi la compagnia corazzata guidata dal sergente Don “Wardaddy” Collier e formata da altri quattro componenti: Boyd “Bible”, Trini “Gordo” Garcia, Grady “Coon-Ass” Travis e l’ultimo arrivato Norman Ellison. L’equipaggio viaggia a bordo del carro armato Fury, centro quasi assoluto della scena.
La divisione corazzata statunitense appare fin da subito avere la peggio se confrontata con la meglio costruita corazzata e artiglieria tedesca. Il Fury è l’unico sopravvissuto della sua sezione e, in quanto macchina da guerra con uno dei migliori equipaggi, sarà coinvolto in diverse missioni di salvataggio e strategiche, sempre in prima linea.
Non vi è solo guerra e tensione nello svolgersi della trama, in sé originale ma ispirata nelle sue battute finali a un fatto realmente accaduto in Francia, ma il clima non fa dimenticare mai il periodo storico, la situazione, le difficoltà. Non addolcisce mai, nemmeno nei momenti più allegri, non indora la pillola: combattimenti, morte, odio. La realtà è dura, le relazioni e la psicologia dettagliate.
Si vede il rifiuto di Norman, timorato di Dio e recluta nell’esercito da solo poche settimane, che si era arruolato con l’idea di essere dattilografo ed è stato sbattuto invece nel mezzo della battaglia. Si vede l’aspra durezza, in qualche modo anche paterna, di Collier nei suoi confronti e nei confronti della sua famiglia e casa, nonché l’equipaggio e il carro armato. Si è in guerra, non in scampagnata. La vita e la realtà cambia, ti costringe a cambiare: si deve scegliere tra uccidere ed essere uccisi, tra combattere o arrendersi.
Personaggi diversi, anche opposti, ma uniti dalla guerra e dalle avversità in un robusto cameratismo, più forte della rabbia e dei rancori, più importante pure di sé stessi. Quando si sa che ogni momento potrebbe essere l’ultimo, tutto il resto passa in secondo piano. Non si ha il tempo di odiarsi tra alleati, mentre invece si ha il tempo si affezionarsi, nonostante Collier come prima cosa dica a Norman di non legarsi a nessuno. Ma come si può non legarsi quando si vivono e condividono assieme momenti così intensi? Emozioni forti, paure e sollievi, chiusi in un piccolo cubicolo e imparando a conoscere anche gli aspetti peggiori delle persone, i più veri, perché sul campo di battaglia nessuno finge o si nasconde… non si può non diventare un gruppo unito e autentico.
C’è fedeltà storica nella pellicola, tanto che sono stati utilizzati modelli autentici dei carri armati impiegati nella Seconda Guerra Mondiale e ancora funzionanti. Ricostruzione accurata dei momenti, degli svaghi, del pensiero, della pietà. C’è strategia e trama nelle varie azioni, non solo un cieco sparare per mostrare un po’ di piombo o fare “un altro film di guerra”.
C’è anche riflessione, soprattutto a posteriori per lo spettatore. Riflessione su cosa sia, o chi sia, un eroe, ma in particolare riflessione su quando i soldati dicono che fanno il “lavoro più bello del mondo” e intanto portano con sé ricordi che li straziano, compagni morti, paura, odio verso il nemico che non si vuole arrendere. Come d’altronde nessuno di loro si arrende, non fino alla fine, non fino all’ultimo.
Se lo chiederanno i protagonisti, il perché i tedeschi ormai sconfitti non si dichiarino tali e anzi, continuino a combattere come se la guerra fosse dalla loro parte, uccidendo ribelli e disertori e usandoli come ammonimenti e simboli di vergogna. Si chiederanno il perché questa guerra non stia avendo fine solo perché i nazisti non vogliono deporre le armi. E si risponderanno con una semplice e breve domanda: “tu lo faresti?”.
E voi, lo fareste?

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