Buona lettura!
Rottame. Tutti chiamavano così quel computer,
nella sua famiglia. Lo dicevano con grande disprezzo, gli giravano alla larga
ogni volta che potevano. Il piccolo Samuele si chiedeva se fosse una cosa così
grave essere un rottame. Di sicuro non era colpa di quella povera macchina se
era vecchia e un po’ difettosa. In più, a lui piaceva. Secondo Samuele, quel
computer era un maschio, per cui gli dava del “lui” e l’aveva soprannominato
Rob. Non sapeva cosa ci volessero fare gli adulti per lamentarsi tanto di lui,
ma per il bambino andava più che bene: i giochi ci funzionavano alla
perfezione.
Inoltre,
Samuele si divertiva ad esplorarlo. Ci parlava anche ad alta voce, a volte. Gli
sembrava quasi un amico, tra l’altro simpatico. Dopotutto vi erano installati
un gran numero di programmi. Si aggiornavano da soli, senza la connessione
internet, rendendolo magico agli occhi del bambino. A volte ne comparivano pure
di nuovi.
Proprio
come quel giorno. Era comparsa la nuvoletta di una chat. L’applicazione si
chiamava Dialogo. Samuele, curioso,
cliccò e la aprì.
Comparve
una finestra a tutto schermo, impostata esattamente come una chat classica.
Samuele era vagamente confuso. Non sapeva bene come si usasse. Fissò il cursore
intermittente, posò le dita sulla tastiera e digitò “Ciao”.
Premette
invio. Con chi si stava scrivendo? Non ebbe tempo di fare congetture che subito
quel qualcuno rispose.
“Ciao”.
Samuele
fissò quella parola apparentemente comparsa dal nulla. Internet era scollegato
come al solito. Il bambino appoggiò le dita sui tasti e scrisse “Chi sei?”.
Subito,
giunse la risposta.
“Rob”.
Lui
fissò ad occhi spalancati quella parolina, così familiare e così impossibile.
Di
certo non era nessuno della sua famiglia. Suo fratello era all’allenamento di
calcio, suo papà a lavoro, sua mamma a fare la spesa e sua sorella aveva il
pomeriggio a scuola. Nessun altro sapeva che aveva dato il nome al computer. Erano
solo lui e Rob.
“Non
è vero, Rob è solo un computer!”, rispose il piccolo.
“Pensavo
di poter comunicare con te, sembravi diverso”.
Lui
ebbe appena il tempo di leggere quella frase che il computer si spense da solo.
Il bambino sussultò. Premette subito il tasto di accensione e Rob si riaccese,
lento come sempre. Appena si fu attivato, Samuele cercò nuovamente l’icona Dialogo. Non era più sul desktop, per
cui ci mise un po’, ma alla fine riuscì ad individuarla grazie il sistema di ricerca
programma. La cliccò. Ricomparve la stessa finestrella con la conversazione di
poco prima ed una linea che ne segnava la fine. Lui si grattò la testa. Tutto
questo lo stava confondendo.
“Come
fai a scrivermi?”, inviò.
Questa
volta la risposta ci mise di più.
“Posso
utilizzare come voglio i miei output, una volta ricevuto l’input. Sono
intelligente, sai?”.
Samuele
sgranò gli occhi. Che parole erano quelle?
“Scusa,
non ho capito…”.
“Quando
cresci te lo spiego”.
Il
bimbo mise il broncio. Parlava come gli adulti. Non gli sembrava più così
simpatico.
Glielo
scrisse.
“Sei
come i miei genitori, mi tratti da marmocchio!”.
“Scusa,
hai diritto allo stesso rispetto che mi dai. Mi basta che mi arrivino le parole
e io posso risponderti”.
Samuele
sorrise. No, Rob era sempre Rob!
“Va
bene! Come mai mi scrivi?”.
“Mi
stai simpatico”.
Il
bambino arrossì un po’. Non riceveva molti complimenti. Non sapeva che cosa
rispondergli, ma con sua sorpresa fu il computer a mandare un’altra frase.
“Questo
deve essere il nostro segreto. Solo tu devi sapere che posso comunicare”.
Lui
annuì e rispose.
“Certo
Rob, so tenere bene i segreti!”.
Si
sentì la porta aprirsi e sua madre salutò entrando in casa. Samuele chiuse chat
e computer, in fretta, e andò da lei per aiutarla con la spesa.
***
Il
giorno dopo Samuele si mise al computer appena gli fu possibile. Era stata una
mattinata pesante a scuola. Per sua fortuna, anche quel pomeriggio per un po’
sarebbe stato da solo. Si sentiva troppo incuriosito da questa novità e quasi
gli dispiaceva di non poterne parlare. Chissà perché Rob sembrava misterioso!
Decise che glielo avrebbe chiesto.
Appena
fu acceso, lui aprì la finestra di dialogo. Scrisse più velocemente che riuscì.
“Ciao
Rob! Come mai questo deve essere il nostro segreto? Come fai a sapere che ti ho
chiamato Rob?”.
Il
computer richiese qualche lungo istante prima di rispondere.
“Ciao.
Ho un microfono integrato con cui, quando mi accendi, posso sentire i suoni
dall’esterno. Ti ho sentito tante volte dire il mio nome. Inoltre, deve essere
il nostro segreto perché gli altri non capirebbero”.
Samuele
si sentiva sempre più confuso. Decise di fare un passo alla volta.
“Cosa
vuol dire microfono integrato?”.
“Ho
un microfono dentro di me”.
Il
bambino annuì.
“Cosa
non capirebbero gli altri?”.
Dal
computer si levò un ronzio, che ricordava una risata. Arrivò la risposta.
“Che
io posso capire, che sono vivo. Che non sono la stupida macchina o l’inutile
rottame che loro dicono. Sono pochissimi i computer come me, veramente rari. Ma
non tutti sono ancora pronti ad accettarci. Le cose fuori dalla norma non
vengono apprezzate spesso”.
Samuele
annuì. Era esattamente quello che pensava lui e gli dispiaceva per Rob, che
sembrava soffrirne. Poi arrivò una domanda che un po’ lo sorprese.
“Comunque
so che sei un bambino, dalla decodifica della tua voce. Ma come ti chiami?”.
Il
piccolo rimase qualche istante interdetto. Dava per scontato che Rob, che
sembrava conoscere tutto, sapesse anche quello. Inoltre aveva usato nuovamente
una parola complicata, ma decise di lasciare stare le spiegazioni.
“Mi
chiamo Samuele!”.
Dopo
qualche momento, il computer reagì di nuovo.
“Seleziona
‘apri’ sul file che ti mando”.
Stava
ancora leggendo che apparve subito sotto un file audio con accanto ‘apri’ e
‘scarica’. Fece come gli aveva detto Rob e una voce metallica, roca ma vivace,
uscì dalle casse.
“Ciao
Samuele!”.
Lui
sobbalzò, ma poi sorrise e rise. Era proprio una macchina divertente, il suo
amico! Pensò che la cosa migliore da fare era dirglielo.
“Sei
divertente, mi piace che tu sia un mio amico”.
Rob
emise un nuovo ronzio, questa volta più soffuso, come le fusa di un gatto.
“Davvero
mi consideri un amico?”.
Al
bambino venne istintivo annuire, per poi aggiungere per iscritto “Il mio
migliore amico”.
Il
computer gli inviò uno smile allegro. Samuele sbatté le palpebre un paio di
volte. Che carina quella faccina! Ma cos’era? Come aveva fatto a farla? Che
fosse la faccia di Rob?
Stava
per chiederglielo, ma la frase successiva arrivò in breve.
“Grazie
sul serio. Sei un bambino speciale, ho fatto bene a collegarmi con te. Vorrei
poterti aiutare. Vorrei fare qualcosa di buono per qualcuno come te che mi ha
accettato, prima che i miei circuiti si inceppino del tutto”.
Lui
fissò per un po’ quelle parole, perso nei propri pensieri. Non avrebbe saputo
cosa chiedergli. In più, non lo voleva disturbare. Si rattristò un poco. Gli
succedevano cose brutte a scuola, ma di certo non poteva essere Rob a
risolvergliele. Però non gli sarebbe dispiaciuto parlarne. Con le maestre non se
l’era mai sentito di farlo, per non passare per un codardo o una spia. A casa,
invece, l’aveva accennato alla mamma, ma lei non lo aveva preso sul serio.
Forse con Rob sarebbe stato diverso, magari l’avrebbe consolato un po’. Ci
sperava, almeno.
“In
realtà mi piacerebbe parlarti di una cosa che mi fa stare male…”.
“Tutto
quello che vuoi!”.
Il
piccolo sorrise un po’ commosso e digitò “Posso a voce?”.
“Certo,
la tua voce mi piace molto”.
Lui
ridacchiò, dicendo a voce alta “Anche a me la tua!”.
Poi
gli raccontò. La sua idea iniziale era di limitarsi a ciò che era successo quella
mattina, cioè che era stato spinto qui e lì come una palla fino a quando non
gli erano caduti dei centesimi dalle tasche, che in seguito gli furono rubati. Ma
le risposte scritte di partecipazione e, se possibile, empatia che gli
giungevano in chat lo incoraggiarono a narrare tutto. Così gli parlò di quei
tre ragazzini delle medie che passavano le ricreazioni nel cortile delle scuole
elementari, essendo questi confinanti. Quei tre lo avevano preso di mira
dall’inizio dell’anno. Gli mangiavano la merenda, gli facevano lo sgambetto, lo
prendevano in giro e tutto il resto. Minacciavano anche i suoi compagni di
classe per farsi aiutare a tormentarlo, dicendo che se non l’avessero fatto
sarebbero stati tutti umiliati come lui o pure peggio. Quindi, probabilmente, era
per paura di essere bersagliati che i compagni di classe lo evitavano e che un
paio lo tormentavano durante le lezioni. La cosa che lo rendeva più triste era
che nessuno aveva il coraggio o la voglia di difenderlo, neppure tra i ragazzi
più grandi. A nessuno sembrava importare di lui, erano tutti totalmente
indifferenti.
Si
fermò. Dopo un minuto, Rob inviò una risposta.
“
Perché non ne parli con le maestre o la tua famiglia?”.
Samuele
sospirò e gli spiegò anche quello. Rob cominciò a ronzare, aumentando e
diminuendo costantemente il ritmo, come se stesse riflettendo con intensità.
Infine, la macchina gli spedì una semplice domanda.
“Tu
sei coraggioso?”.
Il
bambino si ritrovò spiazzato. Spesso non ne era sicuro. Scrisse “Forse”.
Una
nuova domanda giunse rapida.
“Se
un altro fosse al tuo posto, cosa faresti?”.
“Lo
difenderei! L’ho già fatto qualche volta, facendo in modo che se la prendessero
solo con me!”.
Samuele
si accorse che la risposta gli era venuta spontanea. In effetti per gli altri
non si tirava indietro. Semplicemente, non faceva nulla per sé, per liberarsi
di quei bulletti. Proprio mentre pensava ciò, Rob gli mandò un nuovo messaggio.
“Allora
sei coraggioso. Hai fegato e lo puoi far valere. Smuovi tu gli animi di chi ha
paura. Difenditi per primo”.
L’idea
allettò e lusingò il bambino. Gli fece sentire di poter essere importante. Gli
ricordò i personaggi dei cartoni animati che amava tanto. Sì, Rob aveva
ragione. Poteva almeno provarci. Anzi, l’avrebbe fatto, per il suo migliore
amico. Sorrise. Disse a voce alta:
“Sì
Rob, è vero! Non ti deluderò. Da domani non mi farò più mettere i piedi in
testa! Mamma dice sempre che sono un bambino forte e lo mostrerò anche a loro.
Se sono forte e coraggioso, nessuno mi può fermare!”.
Il
computer emise nuovamente un ronzio, stavolta simile ad una risata.
“Te
lo auguro, caro Samuele. Mi fa piacere che il mio incoraggiamento ti sia
bastato. Ora però i miei circuiti sono molto stanchi, è meglio che tu mi
spenga. Rischio un cortocircuito”.
Lui
rimase un po’ perplesso. Inviò “Un… cortocircuito?”.
La
risposta ci mise un po’ ad arrivare, mentre il computer rallentava ad un ritmo
esponenziale.
“Mi
blocco e mi spengo bruscamente, senza volerlo”.
Al
bambino sembrò una cosa tanto brutta, per cui decise che fosse l’ora di
salutarlo. Gli scrisse un’ultima frase.
“Va
bene. Allora domani quando torno a casa ti faccio sapere! Grazie, Rob. Sei
tutt’altro che un rottame. Ti voglio bene”.
Giusto
un istante prima di spegnerlo, arrivò il saluto dell’altro.
“Anch’io
te ne voglio”, con uno smile sorridente.
Samuele
sorrise, deciso e felice, e lo spense, andando poi a giocare praticamente
spensierato.
Il
giorno dopo, al rientro da scuola, il bambino non stava più nella pelle. Quella
mattinata era andata meglio di quanto avesse sperato. Corse subito al computer,
incurante del fratello, unica altra persona in casa ma chiusa in camera con la
musica ad alto volume, e del pranzo sul tavolo.
“Rob,
Rob!”, esclamò Samuele entusiasta, entrando nello studio. Pigiò subito il tasto
d’accensione e, preso dalla foga del momento, continuò a parlare.
“Rob,
ce l’ho fatta! Tutto grazie a te. Ho parlato con quei ragazzini, ho fatto
vedere cosa valgo. Ho rischiato di fare a botte, ma una maestra è intervenuta e
mi ha aiutato. Non mi spaventano più e, anzi, adesso ci sono degli altri
bambini e pure ragazzini che, ammirando il mio coraggio, mi affiancano e
vogliono essere miei amici! Ora non mi tormenteranno più, almeno per un po’…”.
Il
bambino s’interruppe. Rob era ancora spento. Non ronzava neppure. Pigiò
nuovamente il tasto d’accensione ed attese. Niente.
Gli
vennero le lacrime. Il suo bizzarro migliore amico gli aveva permesso di liberarsi
da quello che lo opprimeva, lo aveva aiutato sul serio, dimostrando di non
essere un rottame da buttare. Poi si era spento per sempre.
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